La mattina del 13 gennaio del 1982, nella piazza di Cutro (paese in provincia di Crotone) avviene una scena che potrebbe sembrare quella di un film: sullo sfondo si vede arrivare una macchina a tutta velocità, con le canne dei fucili che sporgono dai finestrini; ci vuole solo qualche secondo per realizzare che sta per scoppiare una pioggia di proiettili indirizzati al boss Antonio Dragone. In quel momento, ci sono due esponenti delle forze dell’ordine a Largo Rimini: uno è il comandante della stazione dei carabinieri di Cutro, che è dentro il bar Detroit e che, vedendo avvicinarsi gli uomini armati, invece di intervenire e provare a difendere le persone inermi che sono in piazza, prontamente abbassa la saracinesca del bar e si barrica dentro per nascondersi e assicurarsi la propria protezione. L’altro è il maresciallo dei carabinieri in servizio al Nucleo Elicotteri dell’Anonima Sequestri di Vibo Valentia, Francesco Borrelli. Era stato in servizio sia a Natale che a Capodanno, per qualche giorno era in ferie, a casa con la famiglia – la moglie e due figli, Alfredo di 7 anni e Caterina di 6 – lontano dal proprio lavoro e dalla propria divisa. Ma l’autentico senso del dovere non conosce vacanza. Assistendo a quella scena, istintivamente si mette a urlare per fare allontanare la gente. I fucili sparano, il boss si salva, il maresciallo Borrelli viene colpito in pieno all’altezza dell’arteria femorale. Nei momenti successivi all’attentato tutto si tace e si ferma, nessuno presta soccorso al ferito, finchè non arriva Tonino Caccia che, coraggiosamente, si mette in mezzo alla strada e ferma il primo furgoncino che vede passare per chiedere aiuto a trasportare il ferito in ospedale. Francesco Borrelli spira, dissanguato, su quel furgoncino. Una “morte semplice” la chiama oggi il figlio Alfredo. Infatti, il maresciallo Borrelli non muore in una eroica missione mentre con il suo elicottero vola in Aspromonte alla ricerca di latitanti, ma muore a un chilometro da casa, mentre faceva commissioni quotidiane fra la tabaccheria e l’edicola; muore perché è un uomo onesto e generoso.
Per Francesco Borrelli, i funerali di Stato come “vittima del dovere” e una medaglia alla memoria per il valor civile – non militare, perché non era in servizio e perché non aveva sparato nessun colpo di arma da fuoco. Nessun mandante, nessun killer, nessun colpevole e nessuna targa per ricordarlo al suo paese. E, invece, nell’agosto di quello stesso anno, l’allora sindaco di Cutro – con l’approvazione di tutti gli assessori comunali – scrisse una lettera di encomio in cui esprimeva il rammarico per l’allontamento dal paese del comandante dei carabinieri che si era messo al riparo dietro la saracinesca del bar e, addirittura, lo ringraziava ufficialmente per l’attività che aveva svolto.
Ecco uno dei volti delle mafie: un bambino di 7 anni, e sua sorella di 6, che improvvisamente non ha più un padre e nessuno intorno che lo ricorda un po’ per la erronea convinzione che la ‘ndrangheta sia infallibile, che non sbagli (quasi) mai, che si ammazzino fra di loro e che solo ogni tanto ci sia qualche mosca bianca; un po’ perché fare memoria di un morto ammazzato nei luoghi del proprio quotidiano vivere richiede una mossa in più della coscienza e un aperto schierarsi da una parte o dall’altra. Negli anni, Alfredo è stato educato a non pensare che il padre non avrebbe dovuto fare quel gesto e provvedere, piuttosto, a proteggere se stesso. E ha anche imparato il perdono, vedendo nel familiare marciapiede in cui è stato ucciso suo padre, non il “posto sbagliato” o un luogo di lotta, ma semplicemente uno spazio pubblico che appartiene alla società. Non si è costruito un eremo di rancore per non rimanere ingabbiato dietro quelle sbarre da cui non è facile uscire. Per lui, perdonare ha significato costruire relazioni che permettano di spostare gli equilibri e che impediscano alla ‘ndrangheta di vincere ancora.
Nel 1992 Alfredo, un po’ come tutti in quell’epoca, diventa grande: il 23 maggio – il giorno della strage di Capaci – è il suo ultimo giorno da studente liceale, il 19 luglio – il giorno della strage di via D’Amelio – gli viene comunicato di avere ottenuto la maturità con 60/60; nel settembre dello stesso anno si trasferisce a Roma per studiare ingegneria ambientale. Fuori dal suo ambiente, non raccontava niente di sé, nonostante spesso, sia per il suo mestiere sia per il suo impegno politico, si trovasse vicino a tematiche che lo coinvolgevano in prima persona “forse – dice lui – per l’imbarazzo e il disagio di giustificare la militanza politica e l’impegno sociale con un dolore personale”.
Il 21 marzo del 2005 partecipa alla giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera a Roma, ma non ancora come familiare di vittima della mafia, perché non era ancora riuscito a ridurre la cesura fra ricordo personale e impegno civile, sociale e politico. Per lui, già dal 2007 qualcosa inizia a cambiare grazie all’incontro con Stefania Grasso e altri familiari con i quali entra in contatto e che si erano fatti carico delle loro storie di morte e di vita per poterle condividere.
Tutto cambia il 22 luglio del 2008, durante l’ultimo giorno della marcia “I sentieri della memoria” verso Pietra Cappa, sull’Aspromonte, in memoria di Lollò Cartisano – fotografo sequestrato e ucciso, i cui resti sono stati ritrovati proprio in prossimità di quei luoghi – occasione nella quale decide di non continuare ad avere quel filtro fra privato e pubblico, racconta la propria storia avvertendo un senso di liberazione: davvero la memoria si fa impegno da vivere al plurale. Un impegno, che prima era stato solo pubblico, diventa frutto del suo vissuto personale. Questo è Libera “una rete che permette di conoscere persone che diventano fratelli di percorso – dice Alfredo, il quale oggi è anche il referente del presidio di Libera del quarto municipio di Roma, intitolato a suo padre – che ti dona una grande forza; che non ti fa sentire solo; che ti permette di non nascondere il dolore, ma di incanalarlo dalla parte giusta; che ti insegna a coniugare l’esperienza personale con la battaglia sociale e comune”.
“Era una persona capace di scherzare su tutto, mi faceva giocare sugli elicotteri grandi e veri; praticamente mi accontentava su tutto. Ora che io sto per avere l’età che aveva mio padre quando è stato ammazzato, penso al primo ricordo che ho della mia vita che risale a quando avevo circa 2-3 anni: ero con mio padre, su un motorino “Ciao”, quando mi si apre davanti una immensa distesa blu. Mio padre è la persona che mi ha fatto conoscere il mare, che per me è la cosa più bella della natura”, così Alfredo ricorda ogni giorno suo padre Francesco.