In occasione del 35 anniversario dell’omicidio del Maresciallo Francesco Borrelli, pubblichiamo un estratto dell’intervista al figlio Alfredo. Intervista realizzata da Luciana De Luca e pubblicata il 9 novembre 2016 sul “Diario della Memoria”, un progetto del Quotidiano del Sud in collaborazione con l’associazione Libera.
“Ho così pochi ricordi ma belli, che quando penso a quel violento dolore ho la sensazione di aver vissuto una vita che non era la mia. Perché quella che mi doveva appartenere era più bella, bella come il viso di mio padre”. Sono queste le uniche parole , affidate a un messaggio, che Caterina, la figlia del maresciallo dei carabinieri in servizio al Nucleo elicotteri di Vibo Valentia, Francesco Borrelli, ucciso nella piazza di Cutro il 13 gennaio 1982, riesce a pronunciare dopo 34 anni dalla morte del genitore. Aveva sei anni appena Titti, quando ha dovuto fare i conti con un’assenza improvvisa ai suoi occhi incomprensibile.
Alfredo, suo fratello, di anni ne aveva 7 quando il suo papà in un giorno di riposo dal lavoro, vedendo arrivare un auto dalla quale spuntavano i fucili pronti a entrare in azione, cercò di allontanare tutte le persone che sostavano nella piazza, e poi andò incontro ai killer per fermarli offrendosi come bersaglio.
Francesco Borrelli e sua moglie, Eugenia Borrelli, erano cugini di primo grado, figli di due fratelli, e fin da ragazzi si erano innamorati.
“Papà per scrivere a mamma quando stava fuori – racconta Alfredo – inviava le lettere a una loro cugina di Bari, lei le riceveva e le rispediva a suo nome, così nessuno avrebbe potuto sospettare. Quello tra i miei genitori è stato un amore molto grande. Mamma è rimasta vedova a 38 anni e non ha mai preso in considerazione neanche l’ipotesi di rifarsi una vita. E poi lei è sempre stata una donna molto moderna, autonoma e indipendente. Ha insegnato anche fuori dal paese, quando questo rappresentava un elemento di grande novità. Ma è sempre rimasta consacrata a mio padre”. Francesco ed Eugenia si sposarono nel 1973, quando avevano rispettivamente 33 e 29 anni. Ci misero un po’ a convincere i rispettivi padri, i due fratelli più vicini per età e per frequentazione, di non poter rinunciare a vivere la loro storia d’amore. “Mio nonno materno a un certo punto fu costretto a cedere – continua Alfredo – ma pose una sola condizione: dato che papà lavorava alla Base di Elmas, in Sardegna, gli chiese di scegliere almeno un altro luogo dove portare sua figlia, e così mio padre fece subito domanda di trasferimento nelle Marche, a Falconarea Marittima, vicino ad Ancona. Io nacqui nel 1974 a Padova perché il fratello di mamma, di cui porto il nome, studiava medicina n questa città e considerata la stretta consanguineità che c’era tra i miei genitori, mi fece venire alla luce in un ospedale dove si potevano fare dei controlli già alla nascita. La cosa bella è che nella nostra storia accanto a problemi e imbarazzi, c’erano anche aspetti straordinari: io e mia sorella siamo stati coccolati da tutta la famiglia perché eravamo figli di tutti. La sensazione che ho sempre avuto è stata quella di appartenere a una famiglia molto unita”.
Quando Alfredo Borrelli, il fratello di Eugenia, un brillante studente morì per un malore in circostanze misteriose ad appena 24 anni, Francesco decise di ritornare in Calabria per stare vicino alla famiglia in un momento così difficile e delicato.
“Ci trasferimmo a Vibo Valentia e del trasloco se ne occupò interamente mio padre perché mamma partì in tutta fretta per ritornare a Cutro – spiega Alfredo -. Io da quel momento iniziai a vivere nella base militare sempre dietro papà. Mentre gli altri bambini giocavano con gli elicotterini, io giocavo con quelli veri. Ricordo quel periodo come l’età dell’oro perché c’era un clima intenso, erano gli anni dei sequestri con gli elicotteri che sorvolavano l’Aspromonte, un lavoro durissimo. Ricordo che il comandante del nucleo era il genero del generale Dalla Chiesa. Gli elicotteristi erano fondamentali all’epoca, per la lotta alla criminalità. A Vibo c’erano le unità cinofile e molto altri bambini che stavano nella base, figli di colleghi di mio padre. Era per me un luogo di uno straordinario fascino. Ho 42 anni ma credo che potrei piangere come un bambino se ritornassi a Vivona, una frazione di Vibo Marina, dove ho visto per la prima volta il mare con mio padre. Mi portò con lui a bordo di un motorino e ci fermammo su una spianata di cemento. Avevo all’incirca tre anni. Mi rivedo ancora con lui su una barca spiaggiata. Ho pochi ricordi con papà, ma molto intensi. Due anni fa, nel 56 anniversario della fondazione della Scuola elicotteristi di Pratica di Mare, di cui mio padre fu uno dei primi allievi, fui invitato perché figlio di una medaglia d’oro alla memoria, e sono entrato dopo tanti anni, di nuovo, in un hangar. E’ stata un’esperienza stordente: ho perso la cognizione del tempo e sono stato proiettato a 35 anni fa, attraverso gli odori che ho risentito. Nel museo ho rivisto anche i modelli di elicottero che guidava papà.
Si ero molto orgoglioso di essere suo figlio. La prima cosa che lessi di lui ai mei compagni di scuola, fu un articolo della Gazzetta del Sud, quando rimase coinvolto in un incidente in Aspromonte: gli spararono addosso durante un’operazione. L’elicottero perse quota e cominciò a precipitare, ma la folta vegetazione fece da cuscinetto e lui e i suoi colleghi si salvarono. Qualche mese prima della sua scomparsa, invece, papà ebbe un grandissimo dispiacere: morì un suo collega. Stavano cercando di salvare l’equipaggio di una nave in avaria a largo di Gioia Tauro. Quando lui finì il turno, al suo posto si alzò in volo il brigadiere Motta, che a causa del forte vento andò a sbattere contro la nave rimettendoci la vita. Papà stette molto male e in quell’occasione, se pur piccolo, anche io mi sentì colpito in prima persona, come se facessi parte della loro straordinaria comunità”.
Quel 13 gennaio 1982, Francesco era in ferie con la sua famiglia perché aveva lavorato anche i giorni di Natale e Capodanno. E la mattina si recò in piazza per trascorrere del tempo con amici e parenti. I bambini erano a casa con la mamma nel palazzo, in cui abitavano anche altri componenti della famiglia. E questo rendeva casa loro l’intero palazzo.
“Io e Titti stavamo vedendo in televisione il film Cuore batticuore, che trasmettevano su Raidue. Nella siglia finale c’erano dei colpi di pistola e quando noi li sentimmo sul serio, non ci preoccupammo più di tanto. Invece, quegli spari erano veri ed erano quelli che stavano uccidendo mio padre in piazza. Subito dopo noi bambini fummo allontanati da casa. Arrivò la zia Vittoria, moglie di un cugino dei Borrelli, una donna del Nord nata a Novara, forte e positiva, alla quale venne dato subito largo compito di portarli nella sua abitazione, alla fine del paese, lontani da quell’orrore e dalla curiosità della gente. Ci fecero uscire e vidi nella traversa di via Nazionale, già un po’ di persone che si erano radunate. E ci guardavano in maniera strana, quasi con pietà. Per quegli sguardi negli anni, ho scelto la strada del silenzio perché ho sempre odiato sentirmi compatito. Rimanemmo a casa degli zii per tre giorni. Mamma scelse di non coinvolgerci, né di farci partecipare ai funerali di Stato. Caterina mi chiedeva spesso perché ci trovavamo lì e io, facendo il fratello più grande, le rispondevo che forse mamma e papà erano dovuti partire all’improvviso. A noi avevano detto soltanto che c’era un problema, nient’altro. Poi arrivò mio madre con la mia maestra, Michela, a cui ero e sono molto legato, e mia zia Mirella, un’altra figura a me molto cara. Mamma ci spiegò che papà era andato in un posto molto lontano. Caterina iniziò a piangere e non la smise più. Io rimasi freddo, interdetto. Feci solo una domanda: ma è andato in Jugoslavia? Per me quello era un posto molto lontano e poi i miei genitori ci erano andati in viaggio di nozze. Mamma rispose che era andato in cielo. E subito dopo mi fece giurare che non avrei mai indossato una divisa in vita mia. Giuramento che ho mantenuto. Poi tornammo a casa tutti insieme e fummo circondati da un calore enorme da parte di tutta la famiglia. Anche il Presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini, in occasione del Natale, ci invò ad Alfredo e Caterina un dono, accompagnato da una sua lettera nella quale esprimeva la sua paterna vicinanza.
Da subitò capì che erano stati dei mafiosi a ucciderlo. Ma quello che è successo realmente l’ho scoperto solo nel 1994, quando mia sorella, dopo aver ottenuto il riconoscimento di vittima di mafia, fu chiamata a lavorare al Tribunale di Catanzaro, e vide gli atti processuali che riguardavano il caso di nostro padre. Restammo impressionati nel leggere la relazione dei Carabinieri su quanto avvenne quel giorno. C’era scritto che papà, vedendo arrivare la macchina dove erano ben visibili i fucili, occupò parte della carreggiata andando incontro all’auto che avanzava. Andò incontro alla morte pur di salvare altre persone. E io leggendo queste cose pensai quasi con rabbia: ma perché non ti sei fermato? Perché sei andato lì? Poi venne colpito agli arti inferiori, volevano togliersi davanti quella persona che gli stava facendo saltare i piani. Rimase a terra per molti minuti prima che qualcuno si avvicinasse. Solo un ragazzo, Tonino Caccia, fermò un furgoncino, mise dentro mio padre e lo portò in ospedale a Crotone, ma vi giunse morto per dissanguamento.
A Tonino, ancora oggi, mi lega un sentimento profondo. Ogni volta che lo incontro non ho bisogno di dirgli niente. Mi basta guardarlo e abbracciarlo per rinsaldare ancora quel vincolo di gratitudine e di stima profonda che sento per lui.
Sono riuscito a pinagere per la morte di mio padre solo anni dopo. Credo dopo un sogno. Avevo 10/11 anni. Vidi papà in una casa mezza diroccata e gli chiedevo: ma perché te ne sei andato?
E poi lo cercavo ma lui scompariva continuamente in una sorta di spaventoso labirinto. Ricordo di essermi svegliato e di aver pianto tantissimo. Per molti anni poi non ho più parlato di questa storia, perché mi salivano subito le lacrime agli occhi. Verso i 28 anni ero a Roma all’Università, ne parlai per la prima volta con degli amici, ma i miei silenzi ritornarono facendomi ristabilire quella condizione di immobilismo eterno. Credo di essermi scongelato quando è nato il mio impegno con Libera una decina di anni fa.
Io ero già e sono ancora oggi molto impegnato in un’associazione ambientalista e in politica. A me è capitato di organizzare le iniziative di Libera e di non dire che ero a mia volta un familiare di vittima di mafia. Mi vergognavo di collegare il mio impegno alla mia storia. Quando poi ho conosciuto Stefania Grasso a Roccella Jazz, tutto è cambiato. Noi avevamo un amico in comune, il giornalista Danilo Chirico che mi chiedeva sempre di poter scrivere la storia mio padr,e ma io non mi sentivo mai pronto. La mia vita dopo questo incontro è profondamente cambiata. E’ come se Stefania e io ci fossimo riconosciuti dagli occhi. E vedere lei che dopo aver raccontato la sua storia, se ne tornava a casa da sola, a Locri, con il suo motorino, mi fece capire il senso profondo delle parole di don Luigi Ciotti: la memoria deve diventare impegno.
Capì in quel momento che non potevo tirarmi indietro, non potevo essere completo se non avessi messo al servizio del mio impegno anche la mia memoria. E da quel momento non mi sono più fermato. In quell’istante ho capito: ho scongelato il mio dolore, ho compreso intimamente che non puoi far finta che non ci sia. Non puoi essere così presentuoso da pensare di poterlo contenere. Lo si può guardare e raccontare quanto è pesante, ma non lo si può eliminare.
Libera Memoria ha dato la forza a un mosaico di storie e di dolore e far sì di potersi girare dal lato giusto, impedendo che la ‘ndrangheta uccida anche ciò che le loro vittime hanno lasciato nel mondo, a testimonianza dei loro valori. E della loro bellezza.”