Simonetta, un’attesa lunga 34 anni

“Di venere e di marte…” dice il proverbio.

Se poi il venerdì è pure “13”, le premesse non sono certo delle migliori. Eppure questo venerdì 13 maggio non si può proprio saltare, lasciarlo passare sperando finisca in fretta e non provochi troppi danni. Non può Serena, che a Roma ha un appuntamento troppo importante per farsi prendere dalla superstizione; non posso io, che Serena non la conosco, ma che parto presto da casa per andarle a fare compagnia in uno dei giorni più importanti della sua vita, un giorno lungo 34 anni e tanto dolore.

Serena non è solo “Serena”, sulla sua carta di identità si legge “Serena Simonetta”: un doppio nome importante, in cui riecheggia un lontano 1982. Il mare in Campania, a fine maggio, è già una meraviglia e così può capitare che tu, a 11 anni, abbia proprio voglia di farci un salto, insieme al tuo papà che lavora sempre tanto. Papà fa un lavoro difficile da capire quando sei piccola, deve avere a che fare con quei cattivi che troppo spesso senti in TV. Quegli stessi cattivi, quel giorno di maggio, dal mare non ti fanno però tornare a casa: uno sparo e voli via, Simonetta, come «una nuvola che si perde nel cielo».

Passano tanti anni, il solo desiderio della tua famiglia, se proprio non può riportarti qui, è che almeno tu abbia Giustizia. Indagini, udienze, dolore che accumulano fino a questo venerdì 13. Vedo Serena arrivare davanti la Corte di Cassazione, così tesa che mi sembra possa rompersi da un momento all’altro. Entriamo insieme, proviamo a smorzare la tensione parlando di zeppole e pizza fritta…ché il cibo, si sa, unisce sempre!

Passano le ore, le udienze. Ne passa una, in particolare, che attira la nostra attenzione: davanti a noi ci sono le mamme e le sorelle degli operai morti nel tragico incidente alla ThyssenKrupp di Torino. Urlano, piangono: il Procuratore Generale ha chiesto di allungare ancora la loro agonia.

Questo venerdì 13 sembra proprio si stia mettendo come non dovrebbe.

Ecco, tocca a noi. Quelle ore passate insieme, da quattro singoli che eravamo, ci hanno reso un gruppo: ci teniamo la mano, asciughiamo le lacrime quando iniziano a scendere. L’udienza finisce, Simonetta Lamberti aspetta la parola fine alla vicenda giudiziaria del suo brutale assassinio.

Io, intanto, sorrido pensando alla coincidenza di tornare in Cassazione, due anni dopo, per l’omicidio di una donna allora, di una bambina oggi, accanto a una figlia prima, a una sorella ora. Denise, proprio come Serena, non ce l’ha fatta ad aspettare a casa il verdetto sull’uccisione di sua mamma Lea e noi non potevamo non essere lì accanto a lei. Ché la cosa più importante che ho imparato in questi anni è che Lea Garofalo, Simonetta Lamberti e tutti quei 900 nomi, quelle 900 storie di vittime innocenti delle mafie diventano i TUOI nomi, da custodire e tramandare. E allora non puoi che essere accanto ai tanti familiari, dentro e fuori le aule di tribunale.

Che siano lacrime, abbracci o sorrisi, li affrontiamo insieme.

Ecco, ho solo un rammarico oggi: che la conferma della condanna per l’omicidio di tua sorella Simonetta è arrivata quando ci eravamo già salutate e così, quell’abbraccio, dolce Serena Simonetta, non te l’ho potuto dare dal vivo.

Ah, confermata anche la sentenza ThyssenKrupp: vedo i sorrisi dei familiari ancora, in tarda serata, davanti la Corte.

Hai visto che questo venerdì 13 non ha portato poi così male?

 

 

simonettaSimonetta Lamberti era una bambina di 11 anni, uccisa casualmente da un killer della camorra nel corso di un attentato il cui obiettivo era il padre della piccola, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina. Simonetta era uscita a prendere un gelato con il padre e stava rincasando in auto a Cava de’ Tirreni quando i killer entrarono in azione. Il padre si salvò, ma purtroppo per lei non ci fu scampo.