È il 9 novembre e, come ogni anno, sono nella mia terra madre, a Catania, la città in cui sono nata e cresciuta. La città da cui me ne sono andata appena maggiorenne. Oggi, come ogni anno rivivo quegli ultimi momenti con mio padre e vorrei poter tornare indietro e fermare il tempo. Vorrei poter cambiare il corso degli eventi e ogni anno ripenso a quante cose ho fatto, tra un anniversario e l’altro, e a quante volte avrei voluto poter condividere i miei pensieri per avere un confronto.
Domani saranno ventuno anni da quel 9 novembre 1995. Era una sera fredda e umida e stavo tornando verso casa insieme a mio fratello quando vedemmo la polizia a pochi passi dallo studio di nostro padre. Non ci fermammo perché erano già passate le 21.30 e i nostri genitori ci stavano aspettando per cena. Arrivammo a casa e c’era solo nostra madre. Capitava che mio padre facesse tardi in studio, non ci preoccupammo. Mio padre era un avvocato penalista, un difensore del diritto e del processo. Tra i suoi assistiti c’erano anche alcuni esponenti di clan mafiosi. Quando capitava che qualcuno gli chiedesse come riuscisse a difendere gente del genere, lui rispondeva semplicemente: Io sono un avvocato, svolgo una funzione di garante del processo. Quando tornava a casa io correvo verso di lui e gli chiedevo se aveva vinto e lui spesso mi rispondeva con un sorriso dicendo: sì, ho fatto rispettare le regole del processo. Io non capivo cosa intendesse, mi bastava quel suo sguardo stanco ma soddisfatto. Solo dopo le numerose telefonate di parenti e amici che chiedevano notizie di nostro padre mio fratello si insospettì e tornò verso lo studio di nostro padre, a cinquecento metri da casa. Io rimasi lì finché non capii che era accaduto qualcosa, qualcosa di brutto. Scesi di corsa, trovai mio fratello e insieme ad alcuni amici andammo in ospedale. Non capivo perché c’era tutta quella gente. Gli amici ed i parenti che poco prima avevano chiamato a casa per avere notizie erano lì, all’entrata del pronto soccorso, in silenzio con gli sguardi impietriti. Nessuno mi spiegò cosa fosse accaduto, nessuno ebbe il coraggio di dire ad una bimba di tredici anni che non avrebbe più rivisto il suo papà perché la mafia lo aveva colpito a morte con sette proiettili. Quando una cosa non sai come spiegarla ad un bambino vuol dire che è davvero devastante, vuol dire che non doveva accadere. Vuol dire che devi impegnarti per non farla accadere di nuovo.
Mio padre non era un eroe, era un avvocato. Ed è stato ucciso perché era un avvocato. Un avvocato che onorava la toga che indossava ogni giorno. Un avvocato che credeva profondamente nel rispetto delle regole da parte di tutti e che si batteva per quello che oggi è conosciuto come il giusto processo. Non si piegò alla richiesta di un capomafia che voleva la testimonianza di sua cognata, che in quanto parente aveva la facoltà di non testimoniare, nel processo in cui era imputato. Avrebbe potuto farlo senza neppure violare la legge, ma avrebbe infranto le regole della deontologia perché non avrebbe tutelato l’interesse della sua assistita.
Per dieci anni ho tenuto il dolore dentro di me, vivendolo in modo privato. Pensavo che nessuno potesse capire o volesse sentire la sua, la nostra storia. Pensavo…provavo vergogna, rabbia, impotenza, vuoto e non sapevo neanche dare un nome a questi sentimenti così intensi, non sapevo spiegare… Dieci anni dopo ho incontrato don Luigi che mi ha presa per mano e mi ha fatto conoscere la famiglia di Libera. È grazie alla condivisione dei nostri ricordi e del nostro dolore che ho imparato a trasformare questo dolore in impegno. Ed è grazie a questo impegno che ho ricominciato a ricordare i tanti momenti belli che ho vissuto con mio padre, come quando la domenica ci svegliavamo presto, io e lui, e insieme alle mie amichette ci insegnava ad andare in bicicletta raccontandoci barzellette e intonando qualche canzone di Celentano. Ecco, oggi voglio ricordarlo così, mentre pedala spensierato, con quel suo sorriso a denti larghi che nessun proiettile potrà mai fermare.
Flavia Famà
figlia di Serafino
Chi era Serafino Famà
Serafino Famà era un avvocato, scrupoloso e appassionato al suo lavoro. Venne ucciso dalla mafia a Catania il 9 novembre del 1995. Anni di indagini e un processo hanno cercato di ristabilire verità e giustizia sull’omicidio. È dal pentimento del boss Alfio Giuffrida che viene fatta luce sulle motivazioni che portarono a emettere la sentenza contro l’avvocato, voluta dal boss Giuseppe Di Giacomo, che non era un cliente difeso dall’avvocato Famà, ma dal collega, Bonfiglio. Sull’avvocato penalista Famà sarebbe stata scaricata la colpa di quella difesa che non aveva portato risultati a favore del boss.