Il 20 luglio del 1998 tre operai del pastificio Russo, Salvatore De Falco di 21 anni, Rosario Flaminio di 24 anni e Alberto Vallefuoco di 24 anni, furono assassinati davanti al bar Manila, a Pomigliano d’Arco. Stavano per entrare in macchina quando i killer esplosero decine di proiettili, uccidendo Rosario e Alberto. Salvatore, che tentò la fuga, fu raggiunto e finito dai killer. I tre ragazzi erano stati scambiati per appartenenti ad un clan rivale e furono attaccati da un vero e proprio commando che non gli ha dato alcuna possibilità di scampo.
Bruno Vellefuoco è il papà di Alberto e con la sua famiglia camminano al nostro fianco, nella grande rete di Libera, da tanti anni, per trasformare il dolore in impegno. Oggi ricorre il diciottesimo anniversario dalla morte di Alberto e riteniamo sia giusto affiancare il ricordo di quel tragico 20 luglio del 1998 al racconto degli anni di impegno di Bruno, che ha accettato di svolgere il delicato ruolo di referente regionale per la memoria in Campania. Lui stesso ci ha donato una riflessione di cui riportiamo alcuni brani:
“Si dichiarano gli imputati colpevoli dei reati ascrittigli e si condannano alla pena dell’ergastolo. Quanto avevamo aspettato quel momento. Mesi di attesa, lunga, estenuante, trascorsi tra aule bunker e avvocati, trovandosi, tante volte, a incrociare gli sguardi stranamente spenti degli assassini, o quelli arroganti e minacciosi dei parenti, quasi fossimo noi i colpevoli , noi che avevano osato costituirci parte civile in un processo di camorra , noi che avevamo osato pretendere Giustizia e Verità per tre giovani vite innocenti. E, finalmente quel momento era arrivato, Giustizia era stata fatta. Ma alla lettura della sentenza, quando per la prima volta abbiamo avuto la certezza che gli assassini di Alberto, Rosario e Salvatore avrebbero pagato per quello che avevano fatto, ci siamo resi conto che questo non ci faceva stare meglio, che nostro figlio non sarebbe tornato più e che la condanna dei colpevoli non avrebbe mai potuto lenire il nostro dolore. Il dolore, certo ci era già capitato di dover fare i conti con il lutto, con la sofferenza per la perdita di una persona cara. Ma quando perdi un figlio è diverso, il dolore diventa fisico, soffocante, un macigno che ti schiaccia il petto e non ti fa respirare, ti lacera le carni ma ti squarcia anche l’anima, ti annichilisce, ti annienta. Non trovi la forza di abbracciare le tue figlie, ti manca il coraggio di guardare negli occhi tua moglie, lei che viveva in simbiosi completa con Alberto, ti senti in qualche modo colpevole per non essere stato li per difenderlo quando è stato ucciso, colpevole per essergli sopravvissuto: un genitore che sotterra il proprio figlio è contro natura. Vorresti lasciarti andare, ma poi capisci che non è giusto, nessuna sentenza ti ridarà quello che hai perduto, e in nessun aula di tribunale troverai la risposta alle tue domande: perché proprio a noi? Perché proprio a nostro figlio? Ma tu devi fare qualcosa, devi dare un senso a quello che è successo, la morte di tuo figlio, come quella di ogni innocente, non può restare un sacrificio inutile. Ed è in quel momento che incontro Libera, don Ciotti mi aiuta a capire che la storia di mio figlio e delle tante Vittime Innocenti può, se raccontata, servire a smuovere le coscienze, che il dolore può essere trasformato e diventare testimonianza.”
Bruno ha iniziato a portare la sua testimonianza all’interno del carcere minorile di Nisida. Ci racconta così questa sua esperienza:
“A Nisida ho capito che a questi ragazzi, frutto dei nostri errori, delle nostre dimenticanze, della nostra indifferenza, un’altra possibilità non solo va offerta ma gli è dovuta. Chi come me non è un educatore di professione, ha solo una cosa da offrire a questi ragazzi la testimonianza di chi, portando nelle carni la ferita mai cicatrizzabile della perdita violenta del proprio figlio, offre loro la possibilità di confrontarsi con il dolore delle vittime, ma un dolore senza odio, di chi accoglie e si fa prossimo. la speranza è che, anche se in minima parte, questo possa contribuire a combattere tutte le forme di violenza presenti nella nostra società, compresa quella mafiosa che nel disagio di tanti giovani va a reclutare i suoi manovali, da qualche parte ho letto che “la speranza non è ottimismo, o la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato che abbia successo o meno.”
Caro Bruno, abracciamo te e la tua famiglia con l’affetto di sempre e riconoscenti dedichiamo il nostro impegno quotidiano ad Alberto, a Salvatore e a Rosario.